Super Santos

Squarci archeologici

Cara Valentina,
ti scrivo dalla stazione dalla quale è appena partito il treno che mi avrebbe dovuto portare da te. Mi sembra di vederti, mentre sei a casa tua ad aspettarmi. Ti stai sistemando il trucco, ansiosa di indossare il completino intimo che ti sei regalata per sedurmi. Mi sembra di vederla la frenesia che tiene deste le tue mani, ponendo un freno alla paura di essere scoperta da Roberto. Controlli con l’occhio vigile la porta d’ingresso, nell’attesa di vedermi entrare. Hai già immaginato mille volte questo momento. Lo so, perché anch’io l’ho fatto da quel giorno, il giorno in cui con un bacio ho spezzato quella corda sottile che stava logorando i nostri nervi. Mille volte sono entrato da quella porta, da quel giorno. Mille volte ti ho baciata. Mille volte ti ho sussurrato che eri mia, che del resto del mondo non m’importava nulla, che sarei stato pure disposto a bruciare tra le fiamme dell’inferno pur di averti. L’ho fatto mentre dormivo, mentre lavoravo, mentre mangiavo. Nulla aveva importanza, se non te. Nulla aveva senso, se non l’entrare da quella porta. Ogni secondo era solo il granello di una clessidra dolce e perversa che mi separava da quell’unico istante che davvero avrebbe contato: l’istante in cui mi avresti accolto tra le tue braccia per dirmi col tuo corpo che da quel momento in poi nulla sarebbe stato come prima.

Eccolo qui, quell’istante. L’ho lasciato andare via col treno delle 18.10. Tra mezz’ora proverai a chiamarmi, quando capirai che non sono semplicemente in ritardo. Quando il tuo sesto senso ti sussurrerà all’orecchio che ho deciso di rinunciare a te, e che quel gioco grottesco fatto di rimmel e completini intimi, di lenzuola pulite e candele sul tavolo tornerà ad apparire ai tuoi occhi per quello che è sempre stato: una farsa indecorosa. Mi odierai, e tutto quello che ti sto scrivendo in questa lettera non servirà a lenire il tuo dolore, il senso di offesa e di abbandono. Non so nemmeno se te la spedirò mai questa lettera, ma so che dovevo scriverla adesso, qui alla stazione, perché è qui alla stazione che ho deciso di non prendere quel treno, e di lasciarti andare via.

Ero venuto in anticipo, per paura di perdere il treno. Ma era l’impazienza a guidarmi, la voglia matta di stringerti tra le mie braccia. Non riuscivo a stare fermo, e così ho cominciato a camminare lungo il marciapiede del binario. E’ stato allora che l’ho notato. Dietro la recinzione che separa il marciapiede dalla piccola porzione di giardino antistante alla vecchia casa del capostazione. Era sgonfio, circondato da erbacce e bottiglie di plastica, qualche cicca di sigaretta e un paio di preservativi usati. Sembrava stesse lì da poco tempo, ma ugualmente era collocato in maniera tale da poter quasi indurre al convincimento che fosse lì da sempre. Era un Super Santos, uno di quei palloni arancioni con cui ci divertivamo a giocare da bambini, sulle spiagge o nei cortili delle chiese. Non ne vedevo uno da molto tempo. Non so perché, ma mi sono seduto sul muretto dietro la recinzione, e ho iniziato a fissarlo, ritrovandomi a pensare a come fosse finito là, a chi appartenesse. Per quel che ne sapevo, quel pallone poteva stare lì da anni. Per quel che ne sapevo il bambino che lo aveva abbandonato potevo essere io.

Ci ho messo poco a tornare col pensiero all’ultima volta in cui avevo giocato con un Super Santos, perché fu in quel giorno che io scoprii per la prima volta la mia capacità di essere crudele con le persone che amavo.
Avevo dieci anni, ed ero appena entrato in prima media. Era il momento in cui dovevo piacere ai compagni di classe per farmi accettare nel gruppo. Non contava altro se non questo, perché a quell’epoca preferivo essere accettato per quel che non ero piuttosto che essere emarginato rimanendo me stesso. Me l’ero cavata bene, i primi giorni. Giorgio, invece, molto meno di me. Ero l’unico che conoscesse, perché avevamo fatto insieme le elementari. Era schivo, timido e sensibile. Una facile preda per gli scherzi dei ripetenti, quelli che credevano di sapere come andava la vita, e che trovavano divertente insegnarlo a suon di scherzi crudeli a chi ancora doveva uscire dalla sfera ovattata dell’infanzia. Giorgio era escluso da tutto, soprattutto dalle partite di pallone che improvvisavamo finita la scuola. Il nostro campo era uno spiazzo in terra battuta prospiciente a una siepe nella quale si nascondeva la terribile piracanta spinosa, una pianta ricoperta di lunghe spine. Spesso il pallone moriva lì, sgonfiato da una delle sue spine. E siccome ogni Super Santos aveva un costo non indifferente per un bambino di dieci anni ancora privo di una significativa paghetta, nessuno voleva sborsare di tasca propria una lira, considerando che ogni pallone non resisteva più di una settimana. Ecco allora che a uno dei capi del gruppo venne l’idea di dire a Giorgio: “Se vuoi giocare con noi, devi comprare un nuovo Super Santos”. E Giorgio lo fece. Una, due, dieci volte. Divenne il nostro rifornitore ufficiale di Super Santos.

Un giorno però venne da noi senza pallone, e ci disse che il padre gli aveva proibito di comprare altri Super Santos, perché costavano troppo e lui non poteva permetterseli. Inutile dire che fu estromesso dalla squadra, nonostante i miei vani tentativi di convincere il gruppo a reintegrarlo. Passò una settimana. Poi, un venerdì mattina, mentre rientravo a casa con il gruppo, lo vedemmo nel cortile del suo palazzo. Stava giocando, da solo, con un nuovo e splendente Super Santos. Subito uno dei grandi ci disse di tacere. Lo fissò a lungo. Poi estrasse dalla tasca un coltellino da lima. Me lo diede in mano e mi disse: “Va’. Tagliagli il pallone. Deve capire chi è che comanda.” Io rimasi fermo, col coltellino in mano, senza muovere un muscolo. “Non fare la femminuccia! O fai quello che ti dico io, o d’ora in poi gli farai compagnia. Da solo.” In fondo, pensai, Giorgio non ha bisogno di quel pallone. Se ne comprerà un altro, se vuole. È solo un pallone, non ha nient’altro da perdere. Io, invece, se non faccio come mi dicono perderò il loro rispetto. Mi isoleranno, mi faranno la guerra, starò fuori dal gruppo… E così lo feci. Presi il coltello e tagliai il pallone. Da quel giorno non riuscii più a guardare Giorgio negli occhi. Non giocai più con un Super Santos. Mi isolai da solo, perché mi facevo troppo schifo. E quello che era stato il mio miglior amico divenne un estraneo per i successivi tre anni. Non trovò mai il coraggio di perdonarmi, perché io non trovai mai il coraggio di chiedergli perdono. Finirono le medie e lo persi di vista. Non so adesso dove sia né che cosa faccia. Probabilmente ha dei figli, e i suoi figli giocano col Super Santos. Forse è stato uno dei suoi figli a lasciare quel pallone qui, alla stazione…

Ecco cosa ho pensato, in quei pochi minuti che mi separavano dall’arrivo del treno. E quando il treno è arrivato non pensavo più a te, Valentina. Pensavo a Roberto, il tuo ragazzo. E’ stato tra i primi ad accogliermi quando mi sono trasferito in questa città. Siamo diventati amici. Siamo diventati complici. Ed è stato tutto sbagliato, dal giorno in cui ci ha presentati. Non dovevamo andare oltre il primo pensiero. Non dovevamo permettergli di soggiogarci con le sue lusinghe. E invece mi sono lasciato ingannare. Pur di non sentirmi ancora solo, a trent’anni, senza una donna da amare. Escluso dal gioco, ancora una volta. E così stavo per farlo di nuovo, Valentina. Stavo per tradire il mio miglior amico. Ma stavolta non taglierò il Super Santos. Non lo farò. Voglio bene a Roberto, è mio amico, e solo ora capisco le parole che ho ascoltato distrattamente in chiesa domenica scorsa: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.” E’ quello che farò. Finito di scrivere queste righe, tornerò a casa mia. Mi abbandonerò ai rimpianti sul divano e mi guarderò un film, da solo. Poi spegnerò la luce e mi addormenterò, sapendo che un giorno potrei ancora cadere in tentazione e tradire la fiducia di chi mi ama. Ma non oggi, Valentina. Non oggi.

Piero,
8 settembre 1995

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2 risposte a Super Santos

  1. marco81m ha detto:

    Bella storia, rende bene l’idea di quanto può essere spregevole un tradimento che sia un amico o semplicemente un nostro ideale di giustizia in nome di un beneficio temporaneo e fugace.

    "Mi piace"

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