Furore

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Caro albero di ciliegie,
non ho scelto io di morire sotto le tue fronde materne, ma questo è ciò che sta capitando, perciò è a te che scrivo le mie ultime parole prima che la pallottola adagiata nel soffice tepore del mio ventre distrugga in maniera definitiva l’illusione che l’emorragia interna in atto non debba per qualche oscura ragione portarmi alla morte nel giro di una trentina di battiti d’orologio. Vorrai sapere qual è il mio ultimo pensiero, il ricordo che porterò con me dall’altra parte della vita. Non ho più molto tempo, perciò te lo sparo adesso, così come viene.

Ho un’età imprecisata tra i ventitré e i ventiquattro anni, la radio pompa irragionevoli fughe in mi minore prima che la spenga col mio pollice spegni radio. Apro la porta, do un’ultima occhiata fugace allo specchio che restituisce l’immagine di un giovane virile, nel pieno della forma, dai capelli sfatti quanto basta ma non volgari né sciatti, con quella cravatta rosso prugna così incongrua per il suo viso ancora non esente da brufoli, quel sorriso soddisfatto e idiota che emerge dalle labbra sottili, quasi inesistenti, sovrastate da un irragionevole naso che precipita a strapiombo sul nulla. Non concedo ulteriori secondi alla visione e già sono giù per le scale, con la giacca tra le mani e la camicia ancora parzialmente fuori dai pantaloni troppo eleganti per essere veri. E come un divo del cinema muto mi fiondo sicuro e gagliardo sul primo taxi, grazie mi porti lì che aspetto la mia ragazza, sa fuggiremo insieme per sposarci senza tanti occhi indiscreti: io, lei, il parroco e Dio.

Il taxi parte, ho il sangue che scorre troppo veloce nelle vene, e per placarlo penso di respirare piano, come quando uscivo dall’acqua dopo troppe vasche in piscina e per recuperare fiato mi ci volevano tre minuti, ma di quelli buoni, di quelli che un secondo è talmente lungo che ne vale tre, e ti sembra di aver attraversato un’era geologica prima ancora che il tuo cervello, riavutosi dall’immane fatica, possa ricominciare a formulare frasi di senso compiuto che un bambino al di sopra dei sette anni non si vergognerebbe di ripetere al genitore adorante per attirare su di sé l’attenzione dimostrandosi in gamba, terribilmente in gamba, talmente in gamba da poter essere definito il miglior figlio dell’anno. E quindi potrei farlo, respirare piano dico, ma non lo faccio perché sono al culmine della mia felicità e quando tocchi certe vette non ti basta mai, e vuoi più aria, più sangue, più vento in faccia, più tutto. E così mi sporgo dal finestrino e prendo tutta l’aria che c’è, tutta quella che la città brulicante di vita e indifferenza può offrirmi senza chiedere nulla in cambio. E arriviamo a destinazione, e lei scende di corsa dalle scale con quel vestitino bianco da sposa non troppo appariscente, rubato alla cugina di soppiatto, che le sta qualche taglia più grande ma non importa, perché lei è bellissima, e io sono bellissimo, e persino il mio vestito comprato ai saldi è bellissimo, e il tassista è bellissimo, e il colore delle auto che ci sfrecciano accanto, e il colore del cielo e dei palazzi e dei semafori…

E lei sale, e io tremo d’emozione, e si parte a tutta birra verso la chiesa, mentre il sole fa capolino da quella nuvola che appena un’ora fa scaricava sulla mia testa piena di pensieri gocce di irragionevole ansia. Via, spazziamo tutto via, perché adesso la città ride con noi, e quel cantante folk degli anni ’30 riesumato dalla radio scassata del taxi ride con noi, e il mondo gira per noi, solo per noi, e tutto si restringe per farci vedere tutto meglio, e tutto si allarga per farci spazio, perché quando non c’è spazio manca l’aria, ma noi siamo fatti di questo: di aria, e respiriamo la vita, e la facciamo vibrare, e lo facciamo adesso perché abbiamo il furore dei vent’anni, e il futuro ci attende lì, a un passo dalle nostre mani così imperfette. E siamo i nostri genitori che si sposano in altre chiese ed altri tempi, e siamo i nostri nonni e i nostri avi, e siamo il caldo abbraccio della primavera che ci accoglie senza chiedere il pass per entrare nei suoi giardini dorati, e siamo il sudore sulla pelle verniciata d’incanto, e siamo il battito cardiaco che accelera come un bolide su un’autostrada deserta, e siamo la cima e il fondo, e siamo l’incoscienza e la purezza, e siamo il crogiolo di mille difetti e di peccati confessati e di peccati non detti, e di pentimenti ed espiazioni, e di preghiere e luci, e siamo l’aurora di tutte le speranze e la nebbia del pensiero offuscato dalle ragioni del sogno. E tutto è in tutto, e oggi è già domani, e così arriviamo davanti la chiesa, e lei scende, ed è la grazia che si posa sull’inedia, la goccia celeste di rugiada che disseta la foglia secca di un’esistenza giocata al risparmio. Ma oggi noi vogliamo tutto, e lasciamo ai mediocri di risparmiare le forze e i sogni, di giocare al ribasso con la vita, come un principiante alla sua prima partita tra i professionisti, che spera solo di non essere umiliato troppo, di portare a casa un risultato decente. Noi non siamo fatti per risultati decenti, noi siamo l’infinito che ci ha plasmati per rendergli grazie, noi siamo quelli che lottano e perdono e cadono e si rialzano e prendono pugni in faccia e restituiscono il colpo e poi le tragedie e i lutti e le separazioni e le lacrime e l’aurora la luce la grazia il perdono e un abbraccio inatteso e le fughe d’amore e le danze senza senso nei corridoi delle notti invernali e tutto ciò che è stato detto e tutto ciò che si dirà ancora. Ed è così che mi ricordo, ed è così che voglio essere ricordato. Ed era così quel giorno, e adesso è tempo di dire addio. E così sia.

Anonimo,
16 marzo 1988

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2 risposte a Furore

  1. Marco ha detto:

    Bellissima Giulio! Scusa il ritardo, ero rimasto un po indietro, adesso mi carreggiata e smaltisco un po di lettere arretrate!

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