Caro Filippo,
appena finirò di scrivere questa lettera darò disposizioni precise. Rimarrà sigillata, e la potrai leggere soltanto il giorno in cui andrai in pensione, fra molti anni. Il mio non è un vezzo senile, né un eccentrico tentativo di essere ricordato come il matto della famiglia. Semplicemente, certi passi si possono condividere solo con chi cammina sulla stessa strada.
Ieri, alle 16 in punto, sono uscito per l’ultima volta dal mio ufficio. Non provavo niente, se non un vago senso d’imbarazzo nel salutare i colleghi omettendo il solito “Ci vediamo domani”. La sera mi hanno festeggiato. Non hanno osato regalarmi orologi da ottuagenario per il solo motivo che le mie suppliche li hanno convinti a non coprirsi di ridicolo. Sarà stato il vino o l’entusiasmo della resa, ma ho deciso di posticipare l’orario della sveglia un’ora e mezza dopo il solito. Non avevo però fatto i conti con l’implacabile banalità dell’ovvio: il mio corpo, evidentemente, non era stato avvertito che io fossi andato in pensione. E così eccomi in piedi al solito orario, a sfornare gesti meccanici con la precisione di un automa ben oliato. Il caffè sul fornello. Il latte nella tazza. Lo zucchero nel latte. Seduto in vestaglia al tavolo della cucina, mentre rimpiango il sorriso di mia moglie che intinge i biscotti di cacao nel tè, ripetendomi che la fanno ingrassare ma che non ne sa fare a meno. Per un attimo mi è sembrato quasi di vederla, Marisa. Felice come una bambina perché finalmente il mio tempo non dovevo più dividerlo con i colleghi d’ufficio. Era suo, soltanto suo. Era nostro. Nostro come lo era stato in viaggio di nozze, e le domeniche d’agosto in riva al fiume, e nei pomeriggi umidi in cui l’influenza ci aveva costretti entrambi a letto, a contemplare l’infinita tenerezza del nostro stare insieme sotto le coperte cucite a mano nei tre anni del fidanzamento.
Avrei voluto fare quello che facevo ogni mattina. Alzarmi, lavarmi di fretta e uscire di casa, senza alcun’altra preoccupazione se non quella di sopravvivere alla giornata. Ma non c’era più alcuna incombenza ad aspettarmi. Nessuna scrivania. Nessun computer. Nessun documento. Ed è allora che ho capito che se fossi rimasto in casa, la nostalgia si sarebbe impadronita della mia mente, resa debole dalle circostanze. Come sabbia mobile mi avrebbe avvinto tra le sue spire, e sarei rimasto impantanato nei ricordi, il tempo sufficiente per invecchiare istantaneamente, come sapevo era accaduto a tanti miei colleghi andati in pensione prima di me.
E così ho fatto l’unica cosa sensata che potevo fare. Mi sono lavato di fretta e sono uscito di casa. Il sole era tiepido. L’ideale per una passeggiata. Sono salito sullo stesso autobus che ho preso per trent’anni. Era affollato come sempre, ma stavolta non mi pesava più di tanto. Mi sono reso conto solo in quel momento che la prospettiva è tutto. Se la meta è attraente, sopporterai meglio il percorso per raggiungerla. Sono sceso due fermate prima del solito. Mi piaceva l’idea di vagabondare un po’, di giocare a improvvisare con la vita, dopo aver passato un’intera esistenza a programmare, disfare e riprogrammare tutto. Sono passato accanto a un campo di calcetto. Dei ragazzi si dimenavano inseguendo un pallone. Avrei voluto raggiungerli, indossare i pantaloncini e lanciarmi in un dribbling ubriacante. Per trent’anni avrei voluto farlo, nelle mattine di sole, quando tutto quello che vorresti è godere il respiro del tempo che ti riempie i polmoni. Ma io non avevo tempo. Dovevo lavorare. Ora ho tutto il tempo del mondo, ma le mie gambe non mi seguono più.
Ho proseguito, e mi sono soffermato su una locandina appesa alla parete di un bar. Pubblicizzava corsi di pianoforte. Ah, quanto mi sarebbe piaciuto iscrivermi. Passare il meglio del mio tempo a esercitare mani e cuore sui tasti di un piano, accordando le note al mio stato d’animo. Ma quale immane fatica avrebbe richiesto commutare le espressioni ondivaghe dei miei sentimenti in melodie non moleste all’orecchio altrui. Io non avevo tempo. Dovevo lavorare. Ora ho tutto il tempo del mondo, ma le mie mani non mi seguono più.
E’ stato un attimo e la mattina è volata via. Ma non se n’è andata da sola, si è trascinata con sé tutte le possibilità che avevo perso. Ho sognato tutta la vita di poter disporre delle mie giornate assecondando il mio istinto. Suonare fino a far sanguinare le mani, imparare a memoria tutti i libri comprati, percorrere venti chilometri al giorno in bicicletta, fare rafting, viaggiare per il mondo, stare sdraiato su un prato a fantasticare su tutte le vite possibili da vivere. Scrivere romanzi, ballare, completare puzzle di 10.000 pezzi, guardare tre film consecutivi al cinema. E poi ricominciare da capo, ogni mattina. Ma non avevo tempo. Dovevo lavorare.
Mentre la vita attorno a me scorreva così rapida, mi rendevo conto di quanto andassi lentamente, di quanto fossi cambiato. Ho dato la mia vita per il lavoro. Le mie ore migliori. Le mie idee migliori. Le mie energie. Le mie forze. Tutto è stato risucchiato, prosciugato giorno dopo giorno come vino distillato in una bottiglia che perde. E oggi, mentre stavo fuori a rimpiangere e compatirmi, sono arrivato quasi a maledire tutto questo, la mia vita spesa nella fatica e nella rinuncia.
Mi sarei perso, se non fosse arrivata la telefonata di tuo padre. Aveva bisogno che ti tenessi per qualche ora, nel pomeriggio. Sono arrivato a casa tua ed eri lì, nella tua culla. Mi hai sorriso appena, prima di addormentarti. Ti ho guardato per un’ora intera mentre dormivi. Eravamo solo io e te, e tu dipendevi unicamente da me. E nel tuo volto che si riempiva già di sogni e speranze, ho visto tutto ciò che mi era stato celato la mattina. E ho capito che, in fondo, ho fatto quello che andava fatto. Ho dato la mia vita per gli altri. Ed ora ci sei tu. Tu che mi insegni che ogni stagione ha il suo colore, e non ci sono colori più belli degli altri. E se anche tutti i sacrifici che ho fatto mi avessero condotto qui, in quest’unico momento, a vegliare sulla tua vita mentre dormi i tuoi sogni di bambino accanto a questo vecchio sconosciuto e in pensione che non può più correre né suonare il piano, ti dico che ne è valsa la pena.
Ecco, Filippo. Quello che avevo da dirti te l’ho detto. Hai davvero aspettato tanto per leggere questa lettera? E’ davvero, oggi, il tuo primo giorno di pensione? Se è così, spero che le mie parole ti portino alla memoria il mio ricordo. Se non è così, in qualsiasi età della vita tu sia, ricordati che ti ho amato, e l’amore non passa mai invano.
Il nonno,
1 settembre 1984