Caro Christian,
avrei dovuto scriverti tempo fa. Avrei dovuto scriverti prima di ieri. Ora tutto è vano, ma ho deciso di scriverti lo stesso. Chissà se le mie parole ti arriveranno, dove ora sei. Ieri mattina sono uscito nell’orario di apertura dei negozi. Non per fare shopping ma, come ogni mattina da tre mesi a questa parte, per cercare lavoro. Lo zaino pesava più del solito, non perché il suo contenuto fosse particolarmente pesante, ma perché i curriculum vitae che conteneva mi ricordavano la pesantezza dell’esistere che si fa sempre più pressante, sempre più viva. A volte non è la gravità terrestre ad ancorarti al suolo, ma l’ancestrale forza gravitazionale che i tuoi fallimenti esercitano sulla tua anima. Eppure ero lì, come ogni mattina, pronto a chiedere, ad elemosinare, a cercare il mio posto nel mondo.
Era passato da poco mezzogiorno, e non avevo cavato un ragno dal buco. Sudato, stanco, disilluso, guardavo i commessi nelle loro divise linde, le finestre degli uffici da cui impiegati in camicia bianca fumavano la sigaretta nei loro cinque minuti di pausa, gli avvocati appena usciti dai loro studi, gli studenti ancora pieni di sogni tornati da un esame andato bene. Inutile. Mi sentivo inutile. E profondamente solo, anche. Come quando da ragazzino, a causa della mia stazza esagerata, venivo sistematicamente escluso dalle partite di calcetto organizzate nel sagrato della parrocchia dai miei amici. “Tu non puoi giocare in attacco, sei troppo grasso”, “Non puoi giocare in difesa, sei troppo lento”, “Non puoi giocare in porta, non ti sai tuffare.” Nemmeno l’arbitro mi facevano fare, perché non ne avevano bisogno. E così finivo col guardarli, sperando segretamente cose orribili: che uno di loro si facesse male e fosse costretto a tornare a casa, così avrei potuto sostituirlo, mantenendo l’equilibrio numerico.
Mi dici tu cos’è cambiato oggi? Non spero forse segretamente che in qualcuno di questi negozi, di questi uffici, qualcuno venga licenziato, per fare spazio a me? Pensavo a questo, ieri dopo mezzogiorno. Ero l’unico a pensarlo, in quella strada, l’unica presenza senza senso, perché senza uno scopo. Poi è successo che mentre camminavo, con la testa sempre più china, diretto al successivo negozio, ho visto un altro ragazzo, più o meno della mia stessa età, segnato nel volto dalla mia stessa delusione, che camminava, anche lui senza senso, anche lui senza scopo, portando a tracolla una borsa color verde militare da cui uscivano, sgualciti e imploranti, un paio di curriculum vitae. Eri tu quel ragazzo. Ti avevo incrociato solo un paio di volte, in chiesa, e conoscevo a malapena il tuo nome. Non sapevo che cercassi lavoro anche tu, non sapevo che fossi nella mia stessa condizione. Ma in quel momento, quando ti ho visto, mi sono sentito sollevato. Non ero solo. Come me, in altre strade, nel mondo, c’erano milioni di ragazzi che laceravano le suole delle loro scarpe camminando gravati dal peso di curriculum vitae sgualciti ed imploranti, in marcia come un esercito di disperati verso una meta indefinita e vaga. La tua borsa militare mi ha detto tutto. In quel momento ho capito. Se la vita è una guerra e ogni giorno una lotta, noi siamo fatti per lottare, ma se ci privano di un nemico, cosa ci rimane? Cosa rimane ai disoccupati? Siamo soldati, Christian. Soldati senza guerra. Che girano a vuoto attorno ai falò delle loro illusioni, in perenne attesa di un nemico invisibile da colpire, mentre il tempo passa sulle loro teste, e le armi si arrugginiscono, e i riflessi si fanno stanchi, e la fatica di aspettare spegne ogni speranza, ogni gesto, ogni entusiasmo. E il mondo gira, e il mondo ignora.
Forse è questo che hai pensato ieri sera, quando hai deciso di smettere di aspettare, di deporre le armi arrugginite e consegnarti all’unico nemico che avrebbe potuto accoglierti: la morte. Avrei dovuto dirti, Christian, che anche questo pensiero era un inganno, e che proprio la conclusione a cui sei giunto avrebbe dovuto rivelartelo. Un nemico da combattere c’era. Un nemico da combattere c’è. Non la morte del corpo, ma la morte dell’anima. Quella morte che come una coltre di nubi oscure prova a entrare nel tuo cuore per dirti che non vali niente, che non c’è niente da fare, che tutto è inutile e vano. Avrei dovuto dirtelo, ma ancora non lo sapevo. Sei stato tu a rivelarmelo, inconsapevolmente. Avrei voluto che lo facessi in altro modo, ma è andata così.
Stamattina sono uscito, nell’orario di apertura dei negozi. Intorno a mezzogiorno mi sono fermato. Stanco, sudato, disilluso. Ma vivo. Ho chiuso gli occhi, e per un attimo ho sognato che quando li avessi aperti ti avrei ritrovato lì, con la tua borsa militare, a lottare insieme a me contro quel nemico invisibile che vuole ucciderci, ogni giorno. Avremmo riso, come soldati in pausa pranzo, prendendo un caffè in un bar prima di andare avanti. A testa alta.
Carmine,
3 ottobre 2013
Caro Carmine,
anche io sono un soldato senza guerra.
Ogni giorno invio curriculum vitae in tutte le scuole d’Italia. Ogni giorno cerco una provincia diversa ed invio in media 50 curriculum con la speranza che mi possa chiamare qualcuno. Ogni giorno vado in qualche supermercato con la speranza di trovare un lavoro ma ogni giorno ricevo dei no o dei silenti rifiuti. Ogni giorno provo invidia per chi lavora, anche se questa invidia al contrario della tua non è legata ad un desiderio di sostituire colui o colei che già lavorano in quella ditta o fabbrica o azienda. Io vedo raccomandati ovunque, forse esagero ma a conti fatti chi lavora è perché amico di qualcuno o, come si direbbe in maniera diplomatica, hanno trovato la persona giusta al momenti giusto. Molti ritengono che chi lavora è anche perché è stato caparbio e capace ma io non credo che questa sia la verità.
Esistono in questa Italia due parole che vengono sistematicamente ripudiate ma che in verità sono le più vere perché ancorate alla verità: la prima è la parola tumore, spesso viene sostituita da altre parole parole inutile che alludono a questa. Si dice: ha la malattia del XXI sec, ha un brutto male, è malato seriamente…. ECC…. L’altra parola negata è quella di Raccomandazione: spesso si dice: Ho avuto una botta di fortuna ringrazio Dio che ho trovato lavoro,(non nominare il nome di Dio invano pezzo di ipocrita), oppure: Ho trovato la persona giusta al momento giusto, e dulcis in fundo: fino a qualche anno fa era diverso adesso è diventato tutto più difficile (ma se sei stato/a assunta solo 3 mesi fa? Eh si però glielo data un anno fa quindi non fa testo.
Sto incominciando a pensare che però provare disgusto per come va il mondo non sia poi così peccaminoso e che non si debba confessare al prete o frate poiché aiuta ad avere una visione più vera anche se meno celestiale della realtà che si vive.
Penso che il suicidio di Christian si debba anche giustificare perché tante volte anche io avrei voluto fare questo insano gesto come protesta a questo mondo globalizzato che non guarda in faccia più nessuno e che ormai l’aspetto economico sembra essere l’unica dimensione umana e sociale che conti veramente ma poi ho pensato: “dato che tutti sono inseriti nel sistema, dato che tutti sono alienati a questa società di falsi bisogni e falsi idoli, cosa sarebbe servito ques’atto di ribellione? Forse sarebbe meglio lavorare per una coscienza di classe come direbbe il grande Karl Marx, sostituendo però il termine proletariato con quello di precariato o/e disoccupato.
Scusa per lo sfogo adesso vado a consegnare dei curriculum online a Trento e non me ne frega nulla se si muore di freddo, bisogna pur trovare lavoro da qualche parte.
Cordialmente
Dott. Sfigato Zeno Cosini.
"Mi piace""Mi piace"
Gentile dott. Sfigato Zero Cosini,
la ringrazio per la sua testimonianza e la invito a unirsi a me nella ricerca. Che ne dice se da domani andiamo insieme a spacciare curriculum in giro e cercare lavoro? Potremmo così condividere preoccupazioni, ansie, porte sbattute in faccia… Divideremmo il peso della fatica e ci sentiremmo meno soli. Soldati senza guerra ma con un amico accanto.
Carmine
"Mi piace""Mi piace"