Cara Lena,
sento l’urgenza di scriverti anche se non ci sentiamo da anni. Ho saputo da Roberto e Anna che hai ripreso una vita normale, e ne sono veramente felice. Penso che tu non sappia quello che mi è successo, ma prima che te lo spieghi voglio raccontarti la giornata di oggi.
Stamattina sono uscito di casa preparato al peggio. Come avrai sentito dai telegiornali, su Roma era attesa questa famigerata “bomba d’acqua”, una libera traduzione dei giornalisti italiani dall’inglese cloudburst (esplosione di nuvola) che altro non è se non un violento e improvviso nubifragio. Lasciando perdere la goffaggine dell’espressione, che riporta alla mente i gavettoni che ci lanciavamo alle scuole medie, debbo ammettere che la pressione psicologica dei media su di me ha perfettamente funzionato. Se senti il prefetto parlare di “emergenza meteo senza precedenti”, e il sindaco consigliarti di non prendere l’auto, e scopri che hanno chiuso le scuole, le università, i siti archeologici e i cimiteri, qualcosa nel tuo cervello ti costringe a stare all’erta, a prepararti ad ogni catastrofica evenienza, ad amplificare al massimo i riflessi per reggere l’impatto con l’evento annunciato.
Avevano consigliato di rimanere in casa tranne che per recarsi al lavoro o per situazioni di emergenza. Includendo la mia visita in ospedale nella seconda categoria, mi sono armato di stivali ed ombrello antigrandine per affrontare i gavettoni multipli di questo cielo giocherellone. Non voglio parlarti degli slalom tra pozzanghere d’acqua, delle metro allagate, dei chicchi di grandine con cui ho giocato a baseball o dei rami caduti sulla strada. Sono sopravvissuto alla giornata, e quel che mi è successo ha poca importanza. Quello di cui ti voglio parlare, invece, è il modo in cui ho affrontato tutto questo.
In un giorno qualunque, in una situazione “normale”, sarei stato colto impreparato dalle bizzarrie del tempo. Sarei uscito con un ombrellino ridicolo che avrebbe resistito dieci minuti prima di diventare cibo per la spazzatura. Non avrei indossato gli stivali, ritrovandomi con piedi bagnati e raffreddore alle porte. Avrei preso l’auto, rimanendo impantanato nel traffico. Avrei maledetto gli autobus arrivati in ritardo e imprecato contro i treni soppressi. Ogni imprevisto mi avrebbe reso più nervoso, più infelice, più iracondo. Ma il fatto di sapere in anticipo dell’eventualità del nubifragio, il fatto di essermi preparato ad affrontarlo, mi ha permesso di relativizzare ogni evento, giudicandolo inferiore alle attese, meno traumatico di quanto paventato, più sopportabile di quel che temevo.
Ecco, tutto questo per dirti che nessuno mi aveva avvisato dell’arrivo del tumore. E’ arrivato così, senza annunci né preallarmi. Senza che nessuno mi dicesse di prendere l’ombrello, indossare gli stivali, stare attento alla caduta dei rami. E allora mi sono ritrovato a pensare: perché non esiste una protezione civile del cuore che ti ricorda di prepararti all’arrivo del dolore? E perché, se esiste, la ignoriamo sottovalutando il pericolo?
Non so se anche tu eri impreparata quando si è presentato alla tua porta, ma so che sei riuscita ad affrontare la tua “bomba d’acqua”. Oggi splende il sole sulla tua vita, ed è per questo che scrivo a te. Ho bisogno di parlarti, vienimi a trovare. Il mio indirizzo lo conosci. E ricordati di portare l’ombrello.
Giambattista,
6 novembre 2014