Caro figlio mio,
non leggerai mai questa lettera. Se avrò coraggio la lascerò sulla tua tomba, accanto ai fiori freschi che tua madre ha portato ieri. Voglio scriverla lo stesso però, per liberarmi del peso che mi opprime, per farti sapere come sono andate le cose. Quando mi sono imbarcato su quel maledetto peschereccio sapevo che era l’unica possibilità per salvarti la vita. Mi avevano offerto un anno di contratto. Un anno lontano da te e da tua madre. Un anno nell’Oceano Atlantico, senza mai mettere piede a terra. Ma i soldi che avrei guadagnato li avreste ricevuti a casa. Con quei soldi potevamo pagarti le cure di cui avevi necessità. Non ci ho pensato due volte. Sapevo a cosa andavo incontro, ma la fatica e il dolore non mi spaventavano, perché ogni goccia del mio sudore avrebbe alimentato la speranza di vederti sano al mio ritorno.
Per dodici mesi ho lavorato come un mulo. Dodici ore di lavoro al giorno, pause brevissime, sempre in mare aperto con qualsiasi tempo. La notte ci svegliavano a calci dopo poche ore di sonno, per farci riprendere a lavorare. Pescavamo tonnellate di pesce che veniva subito abbattuto e congelato. Ci ho rimesso un polmone nel congelatore. Stavo lì delle ore, senza protezione, e ora convivo con l’asma. Per far sciogliere il ghiaccio che diveniva un tutt’uno con la pelle del viso stavo cinque ore al sole. Il ghiaccio si scioglieva, ma mi prendevo scottature così forti che mi veniva la febbre. Ma dovevo sopportare ben altro. Più di una volta ho rischiato di morire sul ponte, lavorando in piena tempesta con quaranta di febbre. Vomitavo e continuavo a lavorare. Tutta quell’acqua mi ha mandato ai matti. Acqua ovunque, sempre. E quel mare nero, minaccioso, sempre acceso di rabbia e di furore.
Ho resistito per te. Privato del sonno, mal nutrito, umiliato. Ero un oggetto nelle loro mani, ma un oggetto capace di speranza. Quando mi è arrivata la notizia che dei soldi che avevano promesso non era arrivato nulla, che il nostro conto corrente era a secco e che il contratto che avevo firmato era una truffa, di colpo mi sono mancate le forze. Non riuscivo più a muovermi, a rispondere al minimo comando, nemmeno a pensare. Sono dovuto scappare, insieme ad altri tre compagni, quando siamo approdati sulle coste francesi. Se non l’avessi fatto forse mi avrebbero trattenuto con la forza. Sono corso da te, ma non ho fatto in tempo a salutarti.
Adesso non mi rimane che questa lettera tardiva. Io so che sei in un posto migliore, e so che in quel posto la gente che mi ha ingannato per un anno non ci andrà mai. Il sacerdote che mi ha tratto in salvo in Francia mi ha detto che esistono dei peccati particolarmente gravi, chiamati “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”, e tra questi c’è il “defraudare la giusta mercede a chi lavora”, ovvero sfruttare i lavoratori senza pagarli. Non mi consola, e non mi restituirà te, ma quanto sono grato al cielo di non stare dall’altra parte, di non essere come quelle persone, di non esser sceso tra i gradi più infimi a cui un essere umano può arrivare.
Tuo padre,
13 agosto 1995