Caro figlio mio,
so che sei rimasto bloccato all’aeroporto di Parigi. Ti immagino lì, con la paura di non riuscire a fare in tempo. Non voglio illuderti. Non so se quando arriverai mi troverai ancora qui. Sento che sto per lasciarti, per lasciare tutti voi. Non ho dimestichezza col computer, perciò ho deciso di scriverti questa lettera. Non ho molto da offrirti, in verità. Sono bloccato a letto e tutto ciò che mi appartiene è un pigiama sudato, un foglio di carta con l’intestazione di un pastificio, e i miei ricordi. Ti mentirei se ti dicessi che non ho paura. Ma è proprio di questo che ti voglio parlare. Sai perché ho paura? Non temo la morte. Temo la privazione della vita. Ho paura di perdere ciò che ho. Ho paura che mi venga sottratto ciò che mi illudo mi appartenga. Sì, questo pigiama sudato. Ho paura di perderlo, perché lo ritengo mio. E allo stesso modo ho paura di perdere te, e i miei ricordi, e tutto ciò che mi lega a questa esistenza che mi sta scivolando addosso precipitando verso l’ignoto.
Ho avuto modo di riflettere in questi giorni. Chiuso in casa a guardare il mondo dalla televisione, ho fatto entrare l’orrore dentro la mia stanza. Percepisco che quel che è rimasto addosso in Francia e nel resto del mondo dopo la strage di Parigi è un vestito di paura cucito addosso all’anima della gente. Come se tutti si fossero svegliati una mattina ritrovandosi in equilibrio su un filo sospeso tra due grattacieli, senza il tempo di capire come ci siano finiti. E così mi sono ritrovato a pensare alla paura, non come concetto astratto, ma come presenza tangibile che ha accompagnato sin dalla nascita i miei giorni. Non sono arrivato a nessuna scoperta degna di nota, ma sono giunto alla banale conclusione che tutte le nostre paure siano riconducibili a una sola: la paura che ci rubino ciò che ci appartiene.
Abbiamo paura che un ladro sottragga i nostri averi. Che una guerra si prenda la nostra vita o un terrorista cancelli la nostra libertà. Che la mancanza di lavoro ci privi della dignità. Che l’amore ci rubi il sonno e che la morte ci strappi dall’amore. Abbiamo paura che un’offesa saccheggi la nostra quiete. Che una malattia ci tolga la salute. Che la vecchiaia si porti via la nostra giovinezza. Abbiamo paura che un’azione ben calibrata dell’avversario ci privi del gusto della vittoria. Che una decisione altrui sopprima i nostri privilegi. Che il futuro ci tolga le certezze. E che le certezze ci levino l’equilibrio. Abbiamo paura di chi può farci perdere il senno. Di chi è capace di allontanarci dai nostri affetti. Di tutto ciò che ci fa sentire più soli e meno protetti. Abbiamo paura che il sacrificio ci derubi del potere. Che l’altruismo ci allontani dalle conquiste. Che l’accidia depredi tutte le opportunità.
L’uomo ricco ha paura che il povero lo rapini delle sue ricchezze. L’uomo colto ha paura di perdere il suo sapere. L’uomo pigro teme di essere privato del riposo. L’iperattivo che gli portino via la possibilità di agire. Il mendicante difende la sua unica coperta come fosse la corona di un maharaja. La madre tiene stretta i suoi figli per non vederseli sottratti. Chi corre tutto il giorno odia chi ruba il suo tempo. Chi ha fame ha paura di rimanere senza cibo. Chi ha dubbi, che gli rubino la possibilità di scegliere. Chi crede ha paura di venir depredato delle proprie convinzioni. E chi non crede, ugualmente. Chi più ha, più teme. E chi dice di non avere è solo qualcuno che ha senza saperlo. Costruiamo case e le chiamiamo nostre. Poi abbiamo paura che le rapinino. Mettiamo al mondo figli e li chiamiamo nostri. Poi abbiamo paura che ce li portino via. Concepiamo idee e le chiamiamo nostre. Poi tremiamo al pensiero che ce le rubino. Siamo tutti così. Esserlo ci porta ad avere paura e la paura ci spinge ad esserlo.
Che fare dunque? Non ho la saggezza per dirti cosa devi o non devi temere. Posso solo chiederti di riuscire dove io ho fallito: ad espropriarti di te stesso. A liberarti della paura. A disimparare a dire “questo è mio” per liberarti dal peso di pensare “ho paura di perderlo.” E l’unico modo che conosco per poterlo fare è amare a costo della tua vita. Amare gli altri come se tu non esistessi. Come se non avessi niente. Perché nulla ti appartiene. Tutto è un dono. Tutto è grazia. E’ quel poco che ho imparato, e quel che ti voglio lasciare. Non appropriarti del mio ricordo, perché la malinconia ti porti via la gioia. Pensami come un sorriso intravisto di sfuggita all’aurora. Godine senza volerlo afferrare. E sii felice di restituirlo al sole che l’ha generato.
Tuo padre,
12 gennaio 2015