La macchina sparapalline

THE LETTERBOX COLLECTION (14)

Caro nipote,
la tua lettera mi ha molto colpito. Sono dispiaciuto dal sentirti così affranto e mi fa piacere che tu ti sia rivolto a me per avere un consiglio su come affrontare la situazione. Indubbiamente la catena di eventi che ti ha travolto ultimamente avrebbe destabilizzato anche il più paziente degli uomini, ma come un moderno Giobbe devi imparare a sopportare le avversità e agestirle senza isterismi.

Alcune tue frasi, in particolare, mi hanno fatto riflettere. Quando dici “pensavo che il periodo nero fosse ormai alle spalle” o quando ti stupisci del ripresentarsi di problematiche che pensavi risolte, o quando ancora scrivi “potrei affrontare ognuno di questi problemi se si presentassero da soli, ma sfortunatamente hanno la tendenza a colpirmi contemporaneamente, così da farmi sentire sotto un attacco incrociato”… Ti confesso che più scrivevi, più mi veniva in mente un’immagine della mia infanzia. Te la voglio regalare, perché credo sia l’unica chiave per farti capire quanto sia comune quello che stai passando.

Da ragazzino mi ero iscritto a un corso di tennis. Un giorno l’istruttore portò sul campo un aggeggio infernale: la macchina sparapalline. Questa macchina sputava palline sulla mia metà campo, e il mio compito era quello di colpirle per mandarle oltre la rete. Sarebbe stato semplice se le palline fossero state sparate a intervalli regolari, o se mi fossero arrivate sempre nella stessa direzione, ma l’istruttore regolava la macchina per cambiare le traiettorie, la velocità d’uscita delle palle e gli intervalli di lancio. Mi ritrovavo sotto un fuoco incrociato. Non avevo nemmeno il tempo di colpire una pallina, che subito dopo ne arrivava un’altra. La direzione variava spesso e dovevo muovermi da una parte all’altra, mantenendo la concentrazione e i nervi saldi. Non avevo il tempo di abbattermi per una pallina mandata a rete o per una mancata, né di godermi la soddisfazione di averne mandata una oltre la rete. Ma la cosa che mi frustrava di più era questa: tutte le palline che colpivo, venivano rimesse dall’istruttore nella macchina e sparate di nuovo. In pratica, non me ne liberavo più. Per quanto le colpissi bene il sollievo non poteva che essere momentaneo, perché l’unica soluzione per liberarmene sarebbe stata mandarle fuori campo, ma dato che il mio obiettivo era quello di mantenerle nel rettangolo di gioco, dovevo scegliere tra una vittoria momentanea e una sconfitta eterna.

Ecco, considera le palline come i tuoi problemi. Su una pallina c’è il mutuo da pagare, su un’altra la bolletta della luce, su un’altra ancora la multa dell’auto o le grane condominiali. Dovrai colpire le palline delle malattie, quelle dei tradimenti o delle speranze disilluse. Ci saranno palline che arriveranno talmente veloci da trovare impreparati i tuoi riflessi, e altre che ti porteranno a muoverti in direzioni impensate. E quando penserai di aver risolto il problema, ecco che un allenatore rimetterà la pallina nella macchina. Non so se l’immagine possa consolarti, ma tu sei questo, perché tutti noi siamo questo: tennisti che colpiscono palline messe dalla vita in una macchina sparatutto che non smetterà di mettere alla prova i nostri riflessi. Fino al giorno della morte. Abituati all’idea, e consolati pensando che tennisti molto meno bravi di te sono riusciti a fare più punti di quelli che avrebbero potuto immaginare. In fondo, caro nipote, sono solo palline da tennis. E tu… tu sei molto di più.

Lo zio,
23 agosto 1997

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