Caro nonno,
perdona la brutalità della lettera che sto per scriverti, ma visto che a voce non vuoi ascoltarmi, non mi rimane altra scelta. Ieri la mamma mi ha detto che le hai impedito di passare la notte con te in ospedale. Le hai risposto che non ne avevi bisogno, che te la puoi cavare benissimo da solo e che ti sarebbe stata solo d’intralcio. Il risultato è che la mamma ha passato una notte insonne, costantemente in ansia per non poterti stare accanto e preoccupata dal lasciarti in balia dell’inettitudine che gli infermieri hanno dimostrato nei giorni scorsi. Ti vedo già mentre alzi le spalle, sbuffando come chi la sa lunga e non vuole essere scocciato da puerili dimostrazioni di ingenuità filiale. Smettila, una buona volta. Il tuo superomismo di superficie sta sfiancando le residue forze che ci rimangono da quando è iniziata l’odissea del tuo ricovero.
Non è un sacrificio immane per noi aiutarti nel momento del bisogno. Non lo facciamo perché siamo costretti, ma perché ti vogliamo bene. Quando ti veniamo a trovare, ti agiti perché secondo te non aveva senso “sprecare il nostro tempo” per venire al capezzale di un “vecchio inutile e moribondo”. Quando ti facciamo un regalo, ti lamenti perché secondo te abbiamo “buttato i nostri soldi” che certamente sarebbero potuti servire per scopi più utili. Quando piangiamo per te, ti urti perché “non ne vale la pena”. Tu continui a dire che non vuoi essere un “peso” per noi, ma non lo capisci che è proprio comportandoti così che lo diventi? Non ci pesa accudirti, ci pesa sentirci dire che non dobbiamo farlo. Ci pesa vederti sempre adombrato per ogni gesto di amore gratuito, saperti colmo di sensi di colpa ingiustificati. Ci pesa constatare che sei una persona incapace di ricevere amore.
Mi dispiace dirtelo, ma ci vuole grande umiltà per accettare di essere amati gratuitamente. Devi riconoscere di non bastare a te stesso, di dipendere dagli altri, di essere debole e fragile. Devi riporre nel fodero l’orgoglio, far tacere il ricordo dell’autosufficienza, mettere un bavaglio alla vocina diabolica che ti apostrofa come “fallito” e “inutile”, accettare i tuoi limiti e abbandonarti totalmente all’idea di tornare a essere come un feto nel grembo materno, senza nessuna possibilità di sopravvivenza al di fuori di quell’amore sconfinato che ti nutre. Sei in grado di farlo?
Il tuo adorato nipote,
Giorgio
22 settembre 1986