Cara Ilaria,
non ti spedirò mai questa lettera. Ho deciso di scriverla per tenerla sempre con me, per farmi compagnia in ogni istante della mia vita, per ricordarmi di te. Quel poco che ho da dirti avrei dovuto dirtelo tempo fa, ma ormai è tardi. Da ragazzo mi illudevo che le parole fossero note che galleggiano nell’aria, musica di cui possiamo disporre a piacimento per donarla quando ci fa più comodo, matrici d’infinito disancorate dal tempo e dallo spazio, libere e senza confini. Ma la verità è che le parole sono colpi che spariamo per colpire bersagli in volo. Se sbagliamo i tempi e li manchiamo, colpiamo a vuoto. Un attimo prima è troppo presto, un attimo dopo è troppo tardi. Il proiettile che manca il bersaglio vanifica le intenzioni, disperde il senso, ricade senza più respiro nel limbo dell’indifferenza. Ecco perché terrò questo proiettile in tasca. Tu sei già volata via, da un altro uomo, e sparare parole al cielo adesso sarebbe un gesto ridicolo e vano.
Quella sera di tanti anni fa, quando per un attimo i nostri occhi si sono incrociati prima che entrassi in albergo, sospesi in un’esitazione che poteva essere preludio a qualsiasi cosa, io avrei dovuto parlarti. Avrei dovuto sparare il mio colpo, aprire la maledetta bocca, dire qualcosa, qualsiasi cosa che avesse un minimo di senso. E invece dalla mia bocca è uscito solo “Buonanotte”. Tutto qui. Buonanotte.
Poche ore prima, in quel locale pieno di gente, mi ero sforzato di non guardarti, mentre gli altri ti corteggiavano senza alcun timore. Parlavo di cose inutili con persone inutili, fingendomi disinteressato a te per non darti l’impressione di volerci provare. Ma ogni fibra del mio corpo avrebbe voluto avvicinarsi a te, lasciar scivolare giù la maschera del disinteresse, scaraventare lontano dal tempo e dai tuoi occhi quegli uomini nati col dono di saper affabulare qualsiasi persona in ogni circostanza. E riuscire a dirti che avrei dato qualsiasi cosa per diventare parte di quella naturale tenerezza che accompagna ogni tuo gesto, di quella leggerezza nello stare al mondo che è un dono riservato a pochi.
L’occasione l’ho avuta, qualche ora dopo, davanti all’albergo. Ma non è stato il pudore a frenarmi. E’ che a me è sempre mancato quello che ad altri uomini viene naturale. E’ che a me manca quella cosa che trasforma la poesia non detta in canto, l’intenzione in dono, l’invisibile in manifesto.
E’ che a me manca l’eloquio.
Scrivo perché non so parlare. Scrivo perché è l’unico modo che conosco per liberare le mie emozioni e farle vibrare a contatto col mondo, dando loro una voce, un senso, una direzione. E’ come se per qualche strano incantesimo tutto ciò che si libera dalla prigione del mio cuore riesca ad emergere solo attraverso le mani. Sono le mie mani che scrivono, le mie mani che battono su una tastiera, l’unico strumento capace di portare le mie parole fuori da me. Le stesse parole, se percorrono il sentiero che le conduce alla bocca, non arrivano mai in fondo. Sarà la forza di gravità, che le costringe ad arrampicarsi con fatica in cima alle labbra, facendole arrivare stremate alla meta, o il timore inconscio che la mia voce goffa le sporchi e le imbruttisca, ma quando arrivano alla mia bocca, non riescono ad uscire per come sono. Se escono lo fanno sgraziatamente, svogliate e pudiche, impacciate e criptiche, acqua torbida scaturita da fonte limpida. Se non escono, ritornano indietro, lasciando il silenzio come unico intermediario tra me e il mondo, tra me e te.
Sono troppo in là con gli anni per rimediare. Mi rimane la possibilità di scriverti per tenerti ancora vicina a me, di scrivere tutto ciò che sono per illudermi di avere la possibilità che la vita non mi fraintenda, che la vita non mi dimentichi. Per illudermi che tutto ciò che sono stato non si riduca a quelle frasi sconnesse e balbettanti che escono dalla mia bocca quando il terrore di non saper gestire l’universo che trabocca dentro di me mi impedisce di manifestarlo. Quando basterebbe soltanto avercelo, l’eloquio, quel linguaggio che gli altri usano per dire cose semplici in modo chiaro. Per dire alla ragazza con cui vorrebbero passare il resto della vita qualcosa di più vero e di più profondo di uno stupido “Buonanotte”.
Alessandro,
15 settembre 1991