Non abbastanza

ROYGBIV

Caro Andrea,
non ti ho detto niente stamattina quando sei uscito di casa con la certezza che ce l’avresti fatta. La sicurezza nei tuoi mezzi è una dote che a me è sempre mancata, e non sarò certo io a criticarla. Se avrai ragione, come ti auguro, strapperò questa lettera per gioire insieme a te. In caso contrario, voglio che tu sappia che so come ti senti. Sei la prima persona a cui lo confesso, neanche alla mamma ho mai avuto il coraggio di dirlo, almeno in maniera esplicita. Sa quante delusioni ho dovuto superare nella mia vita, ma le ha sempre attribuite al caso, alla sfortuna, all’incompetenza altrui. La verità è che ci sono due parole che mi hanno sempre tormentato, accompagnandomi come un fardello da cui è impossibile liberarsi.

Non abbastanza.

Quando avevo la tua età ero convinto che sarei riuscito a sfondare nella musica. Tutto il mondo attorno a me mi spingeva a questa conclusione. Ogni volta che lodavano la mia voce, o esaltavano i testi delle mie canzoni, o elargivano sorrisi grati dopo una mia esibizione, mi convincevo che quello che avevo sempre desiderato coincideva con il mio destino. Poi le prime audizioni, le cassette mandate alle case discografiche, i provini… un fallimento dietro l’altro, porte sbattute in faccia, sorrisi a mezza bocca che non riuscivo a interpretare. Come me ce n’erano altri. Altri la cui voce veniva lodata, o i cui testi erano esaltati. Siamo tanti nel mondo, sai. E così tanti a volere la stessa cosa. E per anni mi sono sforzato di capire cosa non andasse. Ho perso metà della vita per capire di essere bravo. E l’altra metà per realizzare di non esserlo abbastanza.
“Hai una voce bella. Ma non abbastanza.”
“I tuoi testi sono interessanti, intelligenti, profondi. Ma non abbastanza.”
“Suoni bene. Ma non abbastanza.”

C’era sempre qualcuno più bravo di me. Qualcuno che faceva le stesse cose che facevo io, ma le faceva meglio. Impotenza e frustrazione. Sono due emozioni che mi hanno accompagnato in quegli anni. Ho odiato con tutte le mie forze il mio talento. L’ho odiato come un uomo in preda a una violenta allergia odia la sua pelle, la gratta per far passare il prurito, e vorrebbe strapparla via, rimuoverla. Mi sono adattato a quelle due parole, e ho lavorato per vent’anni nell’azienda del nonno. Ma quando lui ci ha lasciati, non sono stato io a prenderla in mano, ma tuo zio, che se n’era sempre disinteressato. Perché? Perché ero bravo nel mio lavoro, ma non abbastanza. E così in ogni situazione della mia vita, sono sempre stato a un passo dall’eccellenza, senza mai raggiungerla. A scuola ero bravo, ma non abbastanza per prendere il massimo dei voti al liceo e la lode all’università. Ero carino, ma non abbastanza per far colpo sulla ragazza che mi piaceva. A 14 anni pensavo di poter diventare un calciatore. Ho giocato, ed ero bravo. Ma non abbastanza per sfondare. E tutti quei colloqui di lavoro, quegli sguardi sempre uguali dei selezionatori che scorrevano il mio curriculum per poi dirmi: ha un curriculum interessante. Ma non abbastanza.

Hai mai provato la sensazione di scalare una montagna, per poi fermarti a cento metri dalla cima, esausto, e scoprire che non hai più le forze e la capacità di proseguire? E stai lì, agognando la meta, mentre altri scalatori ti superano di slancio e la raggiungono. Sono partiti dopo di te, e ti guardano dall’alto, con un’espressione mista di tracotanza e pietà. E tu cominci a odiare quella passione che ti ha spinto fin lassù, e invidi chi sta a valle, placido e ignaro, consapevole sin da subito della propria inadeguatezza, privo di grandi aspirazioni, fiero della propria medietà. Eccolo tuo padre. Ecco chi sono.

Un uomo intelligente, ma non abbastanza. Generoso, ma non abbastanza. Fedele, ma non abbastanza. Coraggioso, ma non abbastanza. Perché ti dico tutte queste cose? Perché le dico proprio a te, adesso? Perché so che prima o poi, nella vita, anche tu ti sentirai così. E vorrei che in quei momenti ti ricordassi quanto io e tua madre siamo fieri di te. E quanto tu sia importante per noi, perché ogni volta che ti guardiamo quelle due parole spariscono. Perché il giorno in cui sei nato e ti ho preso in braccio, per la prima volta non le ho sentite ronzare nella testa come appendici amare di una fiaba. Ti amavo, ed ero felice. Senza nessun “non abbastanza” a guastare la compiutezza di quell’attimo.

Papà,
3 aprile 1985

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