Caro Gabriele,
non sai quanto a lungo ho atteso questo giorno. Per anni è capitato che prendessi la penna in mano, la accostassi tremante a un foglio bianco, e cercassi le parole per raccontarti di tuo padre. Non eri pronto dieci anni fa. Non eri pronto ieri. Ma quando stamattina ti ho sentito parlare con orgoglio di lui, ho capito che era giunto il momento di scriverti.
La vita non è stata clemente con la tua fanciullezza. Ed è legittimo che una rabbia sorda e crescente abbia infestato il tuo cuore rendendolo ostile a quell’uomo di ventinove anni che con un gesto insensato ha lasciato che la morte se lo portasse via poche ore prima che i suoi occhi potessero gioire nel contemplare i tuoi per la prima volta. Non hai mai voluto parlare di lui. E non hai mai ascoltato con sentimenti estranei al rancore il racconto che altri, troppo frettolosamente, ti hanno riferito di quel giorno. Ma io ero lì. E il mio spirito non troverà pace finché non ti avrò raccontato anch’io quel giorno di tanti anni fa. E prima che quel barlume, quella luce soave che ho visto nei tuoi occhi stamattina, quello spiraglio di devozione filiale che ti percuoteva tutto quando parlavi di lui, possa essere portato via dall’amnesia del tempo, ti dirò perché tuo padre morì, e come accadde.
Erano passate da poco le undici di quella domenica mattina. Eravamo pochi, stanchi e demotivati, mentre l’esercito nemico avanzava, sfiancando ogni illusione di vittoria, ogni illusione di pace. Guardavo negli occhi i miei compagni, e li vedevo oscurati dall’ombra della morte. Nessuno di noi pensava di vedere il sole ergersi nel cielo limpido di mezzogiorno. Non avevamo più voglia di lottare, e molti di noi si erano già dati alla fuga, prendendo la via delle montagne o rifugiandosi nel bosco a valle. Eravamo mal nutriti. Non dormivamo da giorni. Il pensiero dei nostri cari ci destava dal torpore che pian piano, come una lama sottile, scuoiava gli strati via via sempre più sottili della nostra energia vitale. Resistere in attesa dei rinforzi. Questo ci era stato comandato e questo stavamo cercando di fare. Ma nessun rinforzo si scorgeva all’orizzonte, ed era folle pensare che prima del tramonto un qualsiasi aiuto mandato dal cielo o da chissà chi potesse strapparci dalle mani della morte e riportarci a quella vita che sentivamo ormai scivolarci di mano, quasi fosse un sogno interrotto da bambini.
Ci fu qualche sparatoria d’alleggerimento. Un ferito, non grave. Lunghi attimi di silenzio non percepito dal cervello, che continuava a riprodurre il sibilo delle pallottole, lo stridore degli stivali sul terreno, il rinculo delle mitragliatrici, mentre i nostri cuori sembravano rimpicciolirsi ad ogni colpo, e ad ogni colpo rispondevano con un rumore tutto loro, che solo noi potevamo sentire. Tuo padre era lì, accanto a me. E non pensare che nei suoi occhi ci fosse l’ardore degli eroi. Era il più spaventato di tutti. E pensava a te, che dietro di noi, a qualche miglia di distanza, lottavi per nascere in un luogo sicuro. Era tormentato da due pensieri, conficcati nel cervello come pallottole nella carne: non si dava pace per non essere lì con te, e nello stesso tempo sapeva che se non avesse resistito, impedendo al nemico di prendersi la città, tu non saresti più stato al sicuro. Eppure sembrava tutto così vano in quelle ore. Già vedevo gli amici di un tempo approfittare dei momenti di quiete per scrivere frettolose missive d’addio a mogli e fidanzate, madri e fratelli. Già vedevo il guizzo saettante della vita abbandonare gli occhi di quel ragazzo steso all’angolo della torretta d’avvistamento, o di quel giovane che logorava le mani sfregando un rosario consunto con occhi lucidi e impotenti. Era la forza d’inerzia a spingerci a resistere ancora. Non la volontà di imporci, né la speranza di sopravvivere.
Poi accadde qualcosa. Mancava un quarto a mezzogiorno, e tre soldati nemici riuscirono a raggiungere il portone d’ingresso della chiesa che stava di fronte all’edificio in cui eravamo rintanati. Li vedemmo entrare con la forza… li vedemmo entrare con le loro divise sporche di sangue, e il fucile tra le mani, e come se un’invisibile calamita ci attraesse l’uno verso l’altro, ci guardammo fuggevolmente negli occhi. E ci vedemmo lì, sul sagrato, all’ingresso della chiesa, bambini. Mano nella mano con nostra madre, il giorno della prima comunione… e poi lì, di nuovo, nelle domeniche noiose e soleggiate della nostra adolescenza… e poi ancora lì, uomini, usciti da quel portone a fianco delle nostre spose, mentre le campane lassù sulla cima del campanile suonavano a festa e il loro suono rimbalzava gaudioso per tutto il paese.
Le campane.
Ci guardammo negli occhi e sentimmo le campane. Da quanto tempo non ascoltavamo la loro voce? Da quanto tempo quel portone era sprangato, chiuso al passo timido dei bambini, all’avanzare incerto degli adolescenti, all’incedere spavaldo degli sposi? Le campane… ci svegliavano dai nostri sonni di latta, precedendo il profumo del caffè che ci rapiva in un’estasi di quieta gratitudine nel tepore ineguagliabile del ventre domestico… Le campane… ci annunciavano la gioia altrui, come un cielo turchese annuncia la gioia dell’Eterno in quei rari e preziosi giorni senza nuvole… Le campane… ci radunavano da ogni parte del paese, prima della Messa di mezzogiorno, quando ginocchia sbucciate e mani consumate dal diletto del gioco si contraevano fulminee in un unico, plastico gesto che ci conduceva di fronte a quel portone, forse un po’ scocciati ma grati infine di essere lì, tutti insieme, parte di qualcosa, parte del tutto.
Mi vergogno quasi a tentare, con parole indegne e pensieri confusi, di riportarti con esattezza quello che passò tra di noi in quello sguardo. Io so che pensammo tutti la stessa cosa. E so per certo che il nostro cuore, da quell’istante, mutò il ritmo del suo incedere, come se una mano invisibile fosse piombata dall’alto, avesse penetrato il nostro petto e lo avesse ricaricato, come si fa con gli orologi da taschino. Per un attimo sembrò che ognuno di noi dovesse scattare in avanti. Quell’attimo, però, fu seguito da una fatale titubanza. In quel momento, e per sempre, capii che tra la comprensione del cuore e l’audacia dell’azione c’è un solco profondo che solo l’incoscienza, o l’abbandono a ciò che non è umano, può superare di slancio con un balzo. Nessuno di noi saltò. Tuo padre sì. Mancavano pochi minuti a mezzogiorno. I tre soldati presidiavano la chiesa. Le campane sarebbero rimaste mute. E noi sapevamo, per quanto stupido possa sembrare adesso, che il loro silenzio avrebbe decretato la nostra fine.
Lo vidi avanzare, determinato e solitario, sparando per farsi strada. Lo coprimmo fino a che non raggiunse la chiesa. La parte razionale che sopravviveva in noi non capì subito quello che stava facendo, l’utilità di quel gesto insensato. Lui entrò. Si sentì uno sparo. Poi un altro. I soldati nemici capirono. E provarono a inseguirlo. Non sapevamo cosa stesse accadendo lì dentro, ma nello stesso tempo sapevamo tutto. E i nostri occhi interiori videro tuo padre salire per la scala a chiocciola, avanzare sempre più veloce, gradino dopo gradino, mentre le sue gambe si facevano più rapide e il suo cuore più pesante, perché sapeva che ogni gradino lo avrebbe più rapidamente avvicinato alla morte. Se ci furono altri spari, nella chiesa, non si sentirono. Erano sommersi dal fuoco incrociato con cui noi e loro ci contendevamo quel pezzetto di mondo che fino all’altro ieri era stato tutto il nostro mondo. Mentre lui saliva le scale, sempre più affannato, forse ferito. E noi eravamo con lui, spingevamo le sue gambe, lo supplicavamo di portare a termine la sua folle corsa. Perché nessuno, caro Gabriele, nessuno in quell’attimo unico dell’esistenza che accomunava miliardi di persone in tutto il mondo, nessuno desiderava qualcosa più di quanto noi desiderassimo che tuo padre arrivasse lì, in cima, sul campanile della nostra chiesa. E tuo padre ci arrivò, mentre le nostre mani furiose continuavano a sparare, anche dopo che i nemici, in un ultimo ardimentoso slancio, erano riusciti ad entrare nella chiesa protendendosi al suo vano inseguimento. Non lo vedemmo, perché la visuale era ristretta. Ma non aveva importanza. Nell’attimo stesso in cui le campane vibrarono, in quell’attimo io capii. Capii la sua folle corsa, il suo slancio fulmineo verso la chiesa, quello sguardo cieco d’amore negli occhi. Le campane suonarono a mezzogiorno di quella domenica mattina. E fu uno squarcio alle nostre paure. Il cielo tutto sembrò vibrare. Ad ogni rintocco ci sentivamo scossi sin nelle viscere. Tutto ci passò davanti. Tutto ci passò dentro. La vita tornò a scorrere come un fiume nelle vene. Dieci rintocchi. Poi ci fu lo sparo. Ma un ultimo rintocco, come un’eco tardiva, giunse a noi con un lieve ritardo. Fu come il suono del Paradiso che lo accoglieva, giunto puntuale nell’istante in cui il corpo ha cessato di suonare la sua melodia. Ma il silenzio che quello sparo voleva imporre arrivò troppo tardi. Le campane avevano suonato. La loro voce era giunta in ogni angolo del paese, aveva attraversato le valli e le colline, toccato le anime dei fuggiaschi, rinvigorito le membra dei soldati, alimentato la speranza nei gesti delle madri. Le campane avevano suonato a mezzogiorno. Invitavano a lottare ancora, a resistere, a pregare, a non permettere al silenzio di renderci impotenti e sconfitti. Fu un risveglio collettivo. Vidi arrivare uomini e donne da ogni parte. Si riappropriarono fieri delle loro case. Lottammo. Resistemmo. Poi al tramonto arrivarono i rinforzi.
E se oggi sono qui per raccontarti questa storia, è perché tuo padre ci ha permesso di raccontarla. E’ a lui che devo la vita. E quando sentirai risuonare le campane della chiesa a mezzogiorno, immaginalo lassù, sul campanile, mentre muove le braccia col furore di un uomo che riversa tutto se stesso nell’ultimo gesto. Mentre piange, perché sa che quel suono arriverà anche a te, che sei lontano, e sarà il suo unico modo per dirti “Ti amo figlio mio.”
Zio Egidio,
15 aprile 1959
E questo è un pezzo di pura poesia, nell’intensa commozione che strazia il cuore…
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Grazie!
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